Il Facchino

La parola Facchino è uno dei tanti arabismi della lingua italiana, come infatti argomenta Giovan Battista Pellegrino il vocabolo risale alla voce araba “faquih”, teologo, giureconsulto, e passato in seguito a indicare il “legale chiamato a dirimere controversie relative alla dogana”. La degradazione semantica da “doganiere” a “portatore di pesi” (facchino) sarebbe avvenuto in seguito alla gravissima crisi economica del mondo arabo, allorché, nei secoli XIV e XV, i “doganieri” furono costretti – per sopravvivere – al piccolo commercio di stoffe che essi stessi trasportavano – sulle proprie spalle – di piazza in piazza.

Con il tempo, quindi, il facchino ha perso il significato “austero” di funzionario di dogana per acquisire quello spregiativo di persona rozza, volgare e per questo motivo si tende a sostituirlo con un termine più “civile”: portabagagli. Quindi ovunque in Italia è questo di fatto il significato che assume questo termine, ma non a Viterbo o almeno non completamente.

Nella nostra città questa parola, associata a Santa Rosa e alla Macchina, assume una valenza tutta particolare.

E’ infatti un grande onore poter ricevere l’appellativo di “Facchino” per ogni viterbese e non, che comunque abbia sentito una sorta di “chiamata”, che abbia la vocazione a vestire la divisa del Facchino di Santa Rosa. Al di là dei dettagli obbiettivi che riguardano il reclutamento, la durata della carriera, i vari ruoli che i Facchini assumono sotto la Macchina, è di sicuro interesse approfondire la questione da un punto di vista del tutto soggettivo.

Perché si ambisce a diventare Facchino? Perché c’è questa irrefrenabile spinta ad vestire la candida uniforme, che porta ogni anno decine e decine di giovani aspiranti alla soglia della Chiesa della Pace, quando in trepidante e religiosa attesa aspettano il loro turno alla “cassetta” della prova di portata?

Le spiegazioni sono molteplici e vanno analizzate singolarmente. Il Facchino, per ragioni personali e profonde, è devoto a Santa Rosa ed incondizionatamente ama Rosina; per questo motivo è pronto al sacrificio di non poco conto, di mettere a dura, a volte durissima, prova le sue articolazioni, nel sottostare al peso della Macchina (le accollate), nel vedersi produrre escoriazioni sulle spalle e sulla zona cervicale, nell’accettare la possibilità di rischio che talvolta rasenta il peggio, nel ritrovarsi a fine carriera (a volte anche nel fiore degli anni) con schiacciamenti delle vertebre e deformazioni dell’osso cervicale. Quindi una Fede senza riserve.

La tradizione della Macchina, com’è noto, prende avvio dalla traslazione del corpo di Santa Rosa che ebbe luogo il 4 settembre 1258, per volere del Papa Alessandro IV. In principio e per molto tempo è stata una processione schiettamente religiosa, poi, come descritto in numerosi testi, il Baldacchino ha assunto forme sempre più tendenti alla verticalizzazione. Non si sa ancora con certezza quando sia nata la figura del Facchino, ma poiché si tratta di una Tradizione plurisecolare, è possibile affermare che gli uomini viterbesi o gran parte di loro hanno insito in sé come fosse scolpito nella pietra la Tradizione di essere Facchino.

Gran parte del merito della continuità della Tradizione è da attribuire al familismo, cioè al tramandare di padre in figlio l’appartenenza alla schiera dei Facchini. Da sempre ed ancora oggi è possibile che i figli divengano Facchini quando ancora i padri sono in attività; ci sono attualmente esempi numerosi. Va dunque detto che l’ambizione del figlio aspirante Facchino perlomeno equivale a quella del padre Facchino di vedere il figlio Facchino, ovvero l’ambizione del padre Facchino di vedere il figlio in divisa a volte supera quella del figlio aspirante.

A riprova di quanto sia ambita la divisa del Facchino sono i dati degli aspiranti Facchini che ogni anno, attraverso la prova di portata, tentano di entrare nel Sodalizio. Negli ultimi anni c’è stata una media di 70 aspiranti all’anno e questo va fatto risalire a quando Giovanni Paolo II assistette al trasporto straordinario della Macchina, in Suo onore, il 27 maggio 1984.

Prima di tale anno infatti gli aspiranti potevano contarsi sulle dita di due mani a volta anche di una; ciò può ricondursi ad un risvolto sociologico. Ancora alla fine degli anni ’70 gli aspiranti erano pochissimi e c’erano difficoltà nel reclutamento perché valori come la Fede o la Tradizione erano stati scalfiti in maniera consistente dall’onda lunga del ’68. In altre parole i giovani a Viterbo ambivano poco o affatto a vestire l’uniforme, sia per il ribaltamento dei valori, sia anche perché nei confronti dei Facchini c’era, ed in minima parte c’è ancora, una sorta di snobismo, che trova fondamento sull’estrazione sociale della maggior parte dei Facchini, perlopiù contadini, salvo eccezioni, che faceva arricciare il naso a molti.

Tutto questo fino ai primi anni ’80, quando avviene un completo ribaltamento dei valori e i giovani tornano a raccogliersi intorno Santa Rosa, la Macchina e ai Facchini, grazie anche ad un meccanismo di reclutamento e selezione più obbiettivo, affidato sempre più, fino alla totalità, al Sodalizio. Da allora in poi non ci sono stati mai più problemi di reclutamento, semmai il contrario, vale a dire un lavoro di selezione più gravoso per il Consiglio Direttivo.

Fede, forza e volontà sono le tre caratteristiche del Facchino di Santa Rosa, a cui vanno aggiunti altri due concetti basilari: il rispetto e l’umiltà. La Fede nella Santa, la forza fisica e morale e la volontà, elemento basilare per un’associazione che si compone di soli volontari. Il rispetto: rispetto per gli altri, per i Facchini più anziani, per la divisa e per se stessi. In particolare va analizzato il rispetto della divisa, quella divisa che una volta messa è come se fosse cucita addosso, una vera e propria seconda pelle, che rende riconoscibili e che fa dire agli altri: “quello è un Facchino”.

Proprio perché una volta che si diventa Facchino si viene riconosciuti come tali in molte occasioni, coloro che ambiscono a vestire la divisa devono far propria questa consapevolezza e ciò fa parte del concetto di umiltà, intesa essenzialmente come coscienza che indossare l’uniforme costituisce innanzitutto una grande responsabilità, che può essere motivo di orgoglio di appartenere ad una schiera di prescelti, mai motivo di vanità, tenendo sempre a mente che al centro di tutto c’è Santa Rosa.